A Fabbrico! A Fabbrico! Al Pluto

Un pezzo di arte varia, scritto stanotte di getto, con tutti i refusi del caso (tanto li faccio anche di giorno), perchè va bene che questo è (era?) un blog di politica, e va bene anche che come mi diceva una consigliera vicina di banco, tutto è politica, ma questo vuol mica dire che bisogna sempre e solo parlar di "politica". 
La categoria "A Latere" serve appunto (anche) per questo.
 
Si può essere nati nel 1969 e arrivare alla veneranda età di 43 anni e mezzo, essere venuto su a dischi che windows mediaplayerdesticazzi ti cataloga alla voce “alternative”, senza aver mai comprato un disco di Neil Young.
Cioè ci può stare, che se lo passano in radio quando sei ragazzino (e pure ragazzino cresciuto), lo ascolti molto volentieri, fa un po’ parte, come dire, quasi per osmosi del tuo panorama musicale, ti viene in mente un video che vedevi per dj television dove il (già) vecchio Neil chiudeva mostrando una lattina con su scritto “Sponsorized by Nobody”, il chè te lo rende di natura simpatico, però diciamocelo, troppo “ammerigano” per i miei gusti, e poi allora sapevo ancora meno delle 15 parole di inglese che so ora e insomma, i distacchi generazionali hanno il loro perché nell’ascoltare musica e se la tua formazione sentimantal musicale è durata tutti gli 80 e i 90, puoi anche riconoscerne i “padri nobili”, ma non sono loro quelli che mettevi in modo compulsivo nel mangiacassette stereo.
Insomma tutti ottimi motivi o pessime scuse per trattare Neil Young nella stessa maniera con cui si poteva trattare Beethoven o grandi standard del jazz: riconosci l’arte e la metti anche da parte, perché non è che stia parlando la tua stessa misera lingua .
 
Poi capita che ti regali una serata fra amici, di quelle se non rare, diciamo almeno decisamente non frequenti e si usa il pretesto di andare in quel di Fabbrico, dove un quinto amico si danna nell’organizzazione di una rassegna di arte varia, detta appunto “L’ottava arte”.
Insomma, Neil Young e relativa tribute band come pretesto per una partita a chiacchiere, più che un vero motivo per andare, e accade l’imprevisto.
Sarà, ma non so se sono le due birre o la cipolla e i peperoni sopra la pizza, ma sta di fatto che la serata prende uno strano alone già dall’entrata al fu Cinema Pluto, oggi Teatro Pedrazzoli, monumento vivente a memoria di un’epoca, costruzione fatta mattone su mattone da “dopolavoristi”, operai e contadini che volevano il loro cinema e se lo fecero, in un paese di qualche sparuto migliaio di abitanti nella bassa reggiana, con la fabbrica dei trattori Landini appiccicata dietro al principale viale del paese, storia che già di suo meriterebbe un film (e mi dicono che in effetti c’è, il film), oggi gestito da una cooperativa di soli volontari, che continuano a pensare che arte e intrattenimento hanno più senso se sono “collettivi”, e macinano imperterriti sere e pomeriggi, per offrire spettacoli come quello di stasera.
 
E qua bisogna che uno si baci i gomiti e si interroghi sulle misteriosi occasioni astrali che possono combinarsi se un venerdì sera decidi di staccare il culo dal divano e lasciarti portare fuori quasi a caso, perché per l’appunto, ti ritrovi a pagare 5 euro per stare con una trentina di altri campioni di umanità varia, dove te che ti senti vecchio in realtà sembra che abbassi l’età media della sala (eccezion fatta per un paio di giovini, che evidentemente devono avere una qualche forma di relazione con uno dei musicisti per trovarsi lì)-
Entri nello “spazio incontri” (il foyer?) e lo schermo manda una collezione di foto di Woodstock e Marco Moser di K Rock è lì che ti spiega un po’ la rava e la fava di cos’era la Summer of Love, e la cosa ti dispone bene. Peace&Love e le facce di giovani infangati in quel di woodstock, eccetera, eccetera…
Poi vanno sul palco sti cinque soggetti e attaccano una Hey Hey My My dolce, dolente e potente al tempo stesso, e poi via di seguito molte di quelle canzoni che sai depositate in qualche parte del tuo cervello, anche se non le hai mai fatte tue bandiere o tuoi angoli dove nasconderti nelle serate buie, o da cantare a squarciagola nei momenti di entusiasmo o fischiettate la mattina andando a lavorare sereno, però lo sai che c’erano lì, da qualche parte.
Ed è un po’ come mettere insieme i puntini e farci saltare fuori il disegno, capisci o senti qualcosa che non avevi sentito allora in quei distratti ascolti, sdraiato sulla ruvida moquette economica di casa tua, con il radiolone stereo attaccato all’orecchio, girando la manopola per trovare quel po’ di musica buona fra le radio libere ma libere veramente, alla scoperta di quello che non sentivi al sabato pomeriggio alla hit parade di radio due, mentre facevi finta di aiutare tua madre a fare i fatti.
 
E allora, bello tronfio di tutti i tuoi pregiudizi sulle cover e tribute band, ti ritrovi con una pelle d’oca alta un dito a quella apertura, per i suoni e per una voce che secondo me, migliorano di molto l’originale, e ti vien da chiedere che razza di passionaccia deve essere quella che spinge cinque persone a raggiungere un livello di qualità così alto per esibirsi davanti a trenta (toh, quaranta, va!) spettatori paganti 5 euro.
Perché questi suonano bene, ma bene bene, e la voce, porca miseria, non è solo voce: è personalità, tecnica, gusto per quello stai facendo e i flash, i brevissimi aneddoti che racconta in mezzo al palco, ti fanno sentire tutta la parabola dalla “Summer of Love” al periodo nero, di un artista che avevi sempre scambiato per qualcosa a metà tra l’hippie e il country e invece ha anche una disperazione tutta urbana, tutta sua.
Cose che avevi annusato leggendo un capitolo della sua biografia qualche mese fa (tout se tient come dicono i francesi) e che ti aveva fatto pensare che in fondo, il libro lo avresti anche potuto prendere, perché la musica forse non era il tuo genere, ma il personaggio ti sembrava degno di rispetto.
 
E insomma, puoi provare a ragionarci su e scriverci per ore, ma le molte verità di stasera alla fine si riassumono nel culo di avere dei buoni amici, nel fatto che mettere il naso fuori di casa a volte si rischia lo stupore, che forse sarebbe ora di avere un disco di Neil Young sullo scaffale e nello stereo della macchina, e che gli Youngs meriterebbero di essere sentiti da tanta, tanta gente, perchè Neil Young, con loro, ci guadagna e sentirli suonare per una sera è come se ti facessero venir voglia di essere un uomo migliore, amare qualcosa e dedicartici davvero, come fanno loro, che vada come vada per qualsiasi pubblico, suonano appassionati e senza risparmio.
Finisce tutto a gnocco fritto e lambrusco, e con le chiacchiere con i “padroni” del posto, gente che tiene in piedi una cooperativa culturale, nel mezzo della bassa reggiana, che quando torni verso casa, c’è pure la nebbia e siamo al 5 di aprile.
 
Più emiliani di così si muore.

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