Perchè Bonaccini "è" il partitone...

A urne delle primarie PD ancora aperte e a due mesi dall’apertura di quelle “vere” delle elezioni regionali, si può tranquillamente affermare che Stefano Bonaccini sarà il prossimo Presidente dell’Emilia Romagna, la previsione è facile e scontata, non tanto perché, come si vede dall’immagine qua accanto, nelle bacheche “ufficiali” del partito di tutto il mio comune, davanti ad ogni sezione, compare solo il volto di uno dei due contendenti (quando si dice una competizione “democratica”…), ma perché Bonaccini avrebbe stravinto comunque, con buona pace delle anime belle che credono ancora che la struttura del partitone sia “scalabile” dall’esterno o anche solo “riformabile”, per il semplice fatto che a tutti gli effetti lui “è” il partito, e il partitone sa come far capire quando alcune cose sono ammissibili e quando no, e nello specifico, la candidatura di Balzani, è stata ben vista più o meno come la classica mosca nel brodo da tutto l’apparato emiliano romagnolo (e ne avrà anche lo stesso peso specifico).

Bonaccini l’ho conosciuto come giovane segretario provinciale della Sinistra Giovanile, quando io lo ero di quella carpigiana.
Umanamente persona divertente e generosa, politicamente irrimediabilmente uomo d’apparato.
 Studi interrotti per seguire la sua carriera politica che da quell’incarico lo rimbalzò poi per vent’anni ad incarichi ben più rilevanti nel partito, nell’amministrazione di Modena e infine in regione, oggi arriva, alla soglia dei cinquant’anni, come molti suoi colleghi di partito che amministrano in regione e comuni, senza essersi mai dovuto misurare un giorno con il mondo del lavoro reale e dipendendo in tutto e per tutto per il suo sostentamento, dai meccanismi di riproduzione della classe politica.

Per come la vedo io, possono esserci buoni professionisti della politica (e Stefano senza dubbio lo è) e pessimi professionisti della politica, ma il problema è appunto il professionismo della politica in sé, perché fa dei politici delle persone non libere.
Il fenomeno era decisamente più limitato trenta o quarant’anni fa, ma da quando la politica (e i partiti e i loro apparati) sono diventati di fatto una “dependance” dell’economia (o per meglio dire, di certi specifici settori economici), si è prodotta un’involuzione di una classe politica, senza progettualità e senza competenze che non fossero quelle della mediazione fra (pochi) gruppi di interesse, in grado di garantire la “durata” delle carriere.
L’urbanizzazione dei nostri territori dagli anni ’70 in poi è stata disegnata da chi costruiva, le grandi opere, i cui costi e tempi di realizzazione e benefici economici sono sempre stati sbugiardati, sono state contrattate con chi aveva interesse a realizzarle,  la privatizzazione dei servizi avanza più o meno surrettiziamente in ogni settore, i diritti dei lavoratori sono diventati ostacolo per chi aveva fretta di accreditarsi nei salotti che contano del libero mercato facendo dimenticare i trascorsi “comunisti”, e oggi ci troviamo con il principale partito che una volta fu di sinistra, che realizza il programma di riforme berlusconiano (e lo dice B in persona, mica io) e con Marchionne che si spella le mani nell’applaudire questo modello di governo.

Ecco, questo modello di governo, che in realtà avrebbe dovuto essere milioni di anni luce da quello del “modello emiliano”, sarà comunque “premiato” alle prossime elezioni regionali, perché il senso di appartenenza e l’aggrapparsi ai simboli per quanto sbiaditi di una tradizione, di una gran parte dell’elettorato (e in particolare di quello più attempato, che come me ha effettivamente potuto godere dei benefici di questo modello, quando funzionava) saranno il primo meccanismo di tutela di una classe politica che, paradossalmente, continuerà a usare parole come “cambiamento” e “innovazione”, come se non avesse avuto nessuna responsabilità politica nell’ultimo ventennio.

Resisterà lo zoccolo duro della “differenza emiliana”,  facendo finta di dimenticare che siamo finiti  al voto anticipato come una Calabria qualsiasi (roba che solo vent’anni fa avrebbe fatto scendere in piazza la “base”, con le teste dei dirigenti infilate sulle picche), resisterà all’evidenza che il proscioglimento di Bonaccini dall’inchiesta sulle spese pazze in regione, non negano che spese pazze da parte del gruppo consiliare ci siano state (ed alcuni han fatto ben di peggio di quel che si contestava a Bonaccini, senza che nessuno intervenisse prima dell’inchiesta), per non parlare del primo consiglio comunale in provincia di Modena commissariato per questioni di mafia, delle dichiarazioni scioccanti di quello di Brescello, dei 65 inquisiti per corruzione nel solo policlinico di Modena, ecc. ecc.).
Resisterà anche alla “memoria” della recente campagna delle primarie, che ha visto candidati apparire e scomparire in un balletto definito da uno di loro stessi “vergognoso” (trattasi di Patrizio Bianchi, che dopo averlo definito tale, oggi non ha nessun problema a sostenere Bonaccini), segno evidente del gioco a garantirsi qualcosa nel dopo elezioni, con buona pace della “competizione vera” di cui fatasticava Gad Lerner sul suo blog solo a fine agosto.
Resisterà per il semplice fatto che fuori dal PD c’è il vuoto, visto che il M5S è avvitato su sè stesso e sull’essere diventato votabile solo da grillini “doc”,  l’esperimento de L’Altra Emilia Romagna, che cerca di riprendere lo spirito della lista Tsipras alle europee, è troppo giovane per impensierire, e  il centrodestra oramai è il fantasma di sé stesso, dato che tutte le sue proposte politiche oggi come oggi sono già ottemperate nello stile e modello renziano.

Fatto sta che il livello di pathos associato alle prossime elezioni regionali anticipate in Emilia Romagna, probabilmente è inferiore a un decimo di quello che si riserva alle finali di uno qualunque delle dozzine di reality della programmazione TV autunnale.
Per Bonaccini sono schierati tutti i principali esponenti di movimento cooperativo, associazioni di categoria, parlamentari emiliani, la stragrande maggioranza degli amministratori locali (e sicuramente la totalità dei sindaci delle città principali, che con Bonaccini condividono gran parte della propria carriera politica), fino ai solerti volontari delle sezioni che, appunto, usano gli spazi del partito per ricordare a tutti che il candidato è solo uno.
E proprio questi sono il vero ultimo (e secondo me immeritato), baluardo della diversità del partitone emiliano.
Molti dei miei amici coetanei e molte persone delle generazioni precedenti alla mia, cittadini “attivi”, nella società oltre che nel partitone, sotto molti punti di vista, non vogliono o non riescono a vedere questa involuzione, soprattutto non vedono alternative, e oggi andranno disciplinatamente a votare per Stefano (e molti di loro qua nel modenese lo faranno anche per sincera stima o simpatia, in memoria delle comuni esperienze giovanili, quando il partitone era ancora un partito di massa), più per la fiducia o la speranza in un partitone “immaginato”, che non per quello che realmente rappresenta.
Saranno comunque molti meno di quelli che hanno partecipato alle primarie nazionali e, azzardo, delle primarie per la scelta dei sindaci, proprio per il fatto che non si tratta di una competizione o di una scelta, ma di una attestazione di appartenenza, sempre più esigua, ma che appare determinante a fronte del nulla intorno.

Bonaccini sarà il prossimo presidente della regione, sarà eletto da una “minoranza qualificata” degli aventi diritto (nel senso che con ogni probabilità supererà il 50% dei voti, ma sarà la metà della metà degli aventi diritto, con un'astensione che supererà di slancio il 40%).

Il culto della “diversità” emiliana è finito (e soprattutto dispersa ogni traccia della famosa “questione morale” di berlingueriana memoria), ma tutto sommato senza troppi stracciamenti di vesti da parte di nessuno.

La nostra classe dirigente regionale si rivela italiana che più italiana non si può,  a cominciare dalla conversione di massa dal modello “comunista emiliano” (cioè sostanzialmente una socialdemocrazia che aspirava ad essere scandinava) a quello del leaderismo renziano, fatto di tweet e telepromozioni e scambi di favori tra sistema politico e pezzi del sistema economico, potendo ancora contare su una massa critica di consenso (piuttosto “acritico”), che per quanto invecchiato e ridotto, resta (per ora) inarrivabile da qualunque altra proposta politica alternativa (delle quali parleremo poi, a liste provinciali definite).

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