Questo è un pezzo che
si vorrebbe satirico (o perlomeno inutilmente e aggressivamente sarcastico, di
sicuro ingiustificatamente lungo), quindi non prendetelo sul serio. Almeno non
tutto.
Si apprende da anticipazioni giornalistiche e post sui
social, che il mai dimenticato ex Sindaco di Carpi, ex consigliere regionale ed
ex presidente IACP, Werther Cigarini, abbia dato alle stampe un libro di epiche
memorie, sulla sua lunga vita di impegno politico, ai tempi delle “magnifiche
sorti e progressive” della buona amministrazione comunista emiliana (corrispondente
più o meno a finché c’era lui ), dal titolo CARPIGRAD (sottotitolo: Dal buon
governo ai Kalinka Boys: i dolori del compagno Werther).
Ora, da impenitente postmoderno pigro ecologista, ho
umanamente un debito con il Sindaco CIgarini: essere stato fra i primi (se non
il primo) a capire che le piazze rinascimentali (e manco quelle medievali o
barocche), non si possano ridurre a parcheggio.
Lo fece in un’epoca nella quale i temi ambientalisti si erano
appena affacciati nel dibattito politico e molto prima che si fossero mai sentite
nominare le polveri sottili. Oggettivamente un atto di lungimiranza, le cui
motivazioni all’epoca potevano suonare talmente “avanti” da risultare misteriose
e financo sfociare nell’esoterico, ma del quale come carpigiani tutti dovremo
sempre essergli eternamente grati (anche quei buzzurri che in piazza ci
vorrebbero ancora parcheggiare).
Pagato questo tributo, passiamo alle cose serie.
Dato che quando cominciò la sua lunga carriera politica, io
avevo i calzoni corti e la mia la interruppi diversi anni prima che lui andasse
in pensione, non esito a dire che ho potuto apprezzare solo parzialmente i
fasti della sua attività amministrativa in Comune, Regione e IACP.
Nella breve parentesi che mi vide “semifunzionario” del
partitone (all’epoca in versione PDS), avevo però già sviluppato una discreta idiosincrasia per certi voli pindarici del nostro, relativi al superamento
della forma partito (o perlomeno “di quella” forma partito), sul ruolo delle
sezioni e via modernamente discorrendo, temi che il nostro magistralmente spadellava nelle assise di
partito, con una verve inversamente proporzionale all'interesse che destava.
Oddio, non che fosse peggio delle relazioni chilometriche e
sfiancanti dell’allora segretario Arletti alle direzioni comunali che si
tenevano in Sala Banfi, partorite dopo un duro lavoro di copia e incolla
manuale (all'epoca i pc non avevano ancora sostituito i ciclostile) di articoli e articolesse tra Il Sole 24 ore e il Corriere della Sera (dando
per scontato che quelle dell’Unità già nei primi anni ’90, risultassero fuori
moda, per il dirigente di partito che si voleva "post-comunista") che ne giustificavano la presenza in ufficio e lo stipendio, ma insomma,
mettetevi voi nei panni di un poco più che ventenne, non uscito vivo dalla formazione
politico sentimental consumista degli anni ’80 (come avrebbe cantato qualcuno qualche anno più tardi), a doversi sorbire il
confronto tra il lento e pompieristico triturare verbale dell’allora segretario
(soprannominato “Lo Zero” anche da chi oggi non lo ammetterebbe mai), impegnato
nel tenere insieme i cocci dopo la
recente scissione post ’89 e della ben più preoccupanti divisioni congressuali interne fra “Mozione 1”
“Mozione 2” e “Mozione 3” (e forse pure i Verdi all’epoca, udite udite, potevan
sembrare una minaccia) e lo scoppiettante vaniloquio di chi ovviamente aveva
capito tutto, prima di noi tutti.
L’allora consigliere regionale Werther oggi si potrebbe definire come una specie di renziano ante
litteram, forse pure un blairiano ante
litteram, con la sfiga però di non poter apparire proprio così di primo
pelo e se alla fine l'unico riferimento nazionale era Napolitano, faceva pure meno figo.
In compenso era così avanti, ma così avanti nel teorizzare
la vetustà del partito di massa fatto di iscritti e sezioni, che, dopo averci
spiegato la lezione per un numero indefinito di assise, inspiegabilmente venne trombato
alle elezioni regionali del 1994, perché le sezioni non si diedero
particolarmente da fare nella raccolta di preferenze.
Paradossalmente un destino poco diverso da quello che per
tutti gli anni 90 e pure nel XXI secolo fu uno dei suoi principali avversari,
Enrico Campedelli, anche lui escluso in termini di preferenze dallo scranno in
regione e recuperato solo in virtù di un gentile omaggio (un po’ “spintaneo”)
della compagna Palma Costi, fatta assessora regionale.
Una costante che accomuna gli ex sindaci carpigiani: non
contare un accidente in provincia (e quindi non raccattare un voto oltre la
Lama o l’incrocio tra via Marx e la Romana sud), e stare pure un poco sulle
balle ai propri concittadini e soprattutto compagni, che gli scappa pure di non
dare preferenze a valanga o addirittura di regalare qualche briciola a dei foresti, giusto per dispetto.
Ma torniamo al pregevole tomo di memorie del quale, come
specificato non ho letto manco la quarta di copertina.
Non potendo più ammorbare le direzioni di partito (se ancora esistono, che io le direzioni del partitone non le vedo più dal
1994), l’anziano Werther si ripiglia oggi per un po’ la scena del dibattito politico
locale, pubblicando un testo che dovrebbe spiegarci la parabola discendente
delle amministrazioni a lui seguite, che dei tempi del fu PCI (variante illuminata-riformista
carpigiana) hanno mantenuto solo il
granitico e stolido conformismo alle direttive del partito, indifferente
a qualsiasi evoluzione sociale e men che mai teorica (intesa come teoria
politica), che non avesse a che fare con il garantirsi una perdurante gestione
del potere, escludendone a bella posta le migliori avanguardie miglioriste
(cioè lui).
Il chè è vero.
Cioè non che “lui” rappresentasse mai chissà quale
incredibile innovazione dal punto di vista teorico e organizzativo, dato che
grazie alla sua innata modestia riusciva a comunicare solo con una ristretta
cerchia di piccoli fan, lamentandosi dell’incomprensione del resto del partito,
però sul fatto che un’involuzione e un decadimento della qualità amministrativa
ci sia stato (con eccezione del periodo
Bergianti direi, ma anche lì ero troppo piccolo per giudicare con cognizione di
causa), di sicuro siamo d’accordo.
Il nostro però rivela la vena più rancorosa che dolorosa,
aggettivando (da parecchi anni in qua, in ogni sua comparsata sui media) l’attuale
gruppo dirigente del partitone (molto meno “one” di una volta, effettivamente)
come “Kalinka Boys”.
Ecco, per non saper né leggere né scrivere, questa sua
propensione all’irrisione e riduzione di una piccola esperienza di circolo
giovanile, che nel bene o nel male segnò un paio di generazioni di giovani militanti
o simpatizzanti della sinistra carpigiana (e di molti giovani
carpigiani che semplicemente non avevano un cazzo da fare e comunque al Kalinka
la birra costava meno e ti prendevano anche se non avevi la felpa Best Company),
al trampolino di lancio di quei cinque o sei che da lì “spiccarono il volo” per le loro
carriere politiche, ecco, basta quello per poter catalogare l’altrimenti
illuminante racconto della esemplare
vita politica del nostro, come lo sfogo notturno di chi non dorme per un'irritante esofagite.
Ora, io capisco che per questioni generazionali, un seppur brillante ex funzionario di partito, ex sindaco, ed ex consigliere regionale, possa non comprendere perché ci si ostinasse
a tenere aperto quel posto con qualche velleità politico culturale (ma con
molti più dediti alle sbronze del venerdì sera e/o votati a pratiche erotiche nelle adiacenti scale esterne), con alcuni stagioni di concerti e spettacoli brillanti, grazie al costante ripianamento dei bilanci da parte del partitone.
Certe volte non lo capivo neanche io cosa esattamente ci stessimo a fare, a scaldar panini, servire bevande, menar mascarponi e pulire cessi ogni santo sabato, ma è
vero che quel gruppo là era molto più ampio dei cinque o sei che la monomania
politicistica del Werther oggi inquadra come “Kalinka Boys”, per questo, l’aggettivazione (o è una sostantivizzazione?) un po’ rode.
Certo, anche noi si ha la sfiga di essere venuti poco dopo i liberi punk anarchici del Tuwat e in più con il fatto che eravamo emanazione diretta dalla federazione
giovanile, non possiamo neanche essere citati nei (un po’ patetici) amarcord
sulla musica e cultura giovanile di quegli anni, però in realtà eravamo, se non
tanti, in abbastanza per formare una comunità motivata, che ci provava a
trovare una strada nell’impegno in politica non necessariamente
professionistica, in un momento in cui “la linea” non c’era e se c’era (come
rivelerà poi l’evoluzione ultima del partitone dei giorni nostri) era sbagliata.
Anzi, proprio il fatto che molti di quelli che ho conosciuto
io all’epoca, oggi il partitone non lo votino manco più (da un po’), vuol dire
che facemmo un ottimo lavoro in termini di sviluppo del senso critico.
Quindi, da attento lettore di copertine quale sono non posso
che chiudere questa recensione consigliando caldamente la lettura di questo libro,
adatto a tutti gli over 60 carpigiani con un’elevata stima di sé (che comunque
saranno sempre più dei lettori di questo blog. Anzi, magari qualcuno gliel’ho
procurato pure io).
A quelli che rimangono, giuro che per la prossima recensione,
prima il libro lo leggo.
P.S.: manco son sicuro che all'epoca Cigarini fosse "migliorista".
Per come mi stava sui maroni (politicamente parlando) , sicuramente lo sembrava
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